Prima di partire per un lungo viaggio…
…devi portare con te la voglia di non tornare più.
Irene Grandi.
Io, per l’appunto, sto per partire per un lungo viaggio. Non lunghissimo, ma quanto basta: da Monza, città dove vivo, a Palermo, dall’altro capo d’Italia, attraversando la Penisola lungo la dorsale appenninica. Con un mezzo speciale: la mia vecchia Fiat Cinquecento.
Lei è nata nel ’75, è una delle ultime della sua stirpe, io nel ’72: non siamo coetanei ma poco manca.
Quanto compii diciott’anni andai con mio padre in giro per concessionarie d’auto in cerca d’un mezzo che avesse un prezzo onesto. Lui scelse questa perché era la macchina con cui aveva imparato a guidare: se era andata bene per lui doveva andar bene anche per me. Io fui d’accordo, anche perché quella specie di trottola su quattro ruote era il mezzo più affascinante che potessi aspettarmi di guidare. Non dava nemmeno l’idea di essere una vecchia auto… aveva un che di eterno. di trascendente in senso platonico. Al punto che se la dovette giocare all’ultimo con una assai più blasonata Lancia Fulvia coupé, ma alla fine la vinse.
Faccio notare ai neofiti dell’automobilismo d’epoca che entrambi i mezzi di cui sopra erano al tempo in cui li vedevo due perfetti ferrivecchi, non avendo ancora raggiunto la maggiore età per potersi dire d’epoca ma avendo accumulato un numero di primavere assai più grande di tutti gli altri mezzi mediamente circolanti al momento. Ciononostante si vedeva che ce l’avrebbero fatta, che la loro non sarebbe stata una vecchiaia, ma una costante maturazione, una sapiente metamorfosi da crisalide a farfalla.
E così è stato. Per la Cinquecento in particolare, ché la Fulvia è invecchiata peggio. Sì perché, vedete, il punto è proprio qui: invecchiare bene o invecchiare male. Invecchiare, se si ha la fortuna del caso, s’invecchia tutti, ma è il come che fa la differenza! La Fulvia era ai suoi tempi auto nobile, destinata a una media borghesia riccheggiante e un po’ civettuola, e col tempo ha dovuto cedere il passo alla concorrenza, dato che in fondo la sostanza – intesa come opulenza – le mancava. La Cinquecento no: povera era e povera è rimasta, ma ha avuto il pregio di essersi distinta negli anni per abnegazione e spirito di servizio, di spiccare per praticità e risparmio e di essere ancora oggi modello di grazia unita a sobrietà.
Che sia dunque il “divieni ciò che sei” di Nietzsche il trucco per invecchiare bene?
Non ne sono sicuro, ma il tedesco coi baffoni (non quello coi baffetti) m’è sempre piaciuto, e della sua biografia che lessi tempo fà mi è rimasto in mente in particolare un episodio di vecchiaia. Pare infatti – così almeno riportano i referti della clinica in cui curavano (quale ubris!) la sua lucida follia senile – che un mattino, dopo una notte assai turbolenta, gli infermieri trovassero i muri della sua stanza schizzati ovunque di escrementi e che al medico intervenuto a chiedere spiegazioni egli abbia risposto laconico: “Chiedo una veste da camera per una salvezza radicale. Di notte sono state da me ventiquattro puttane”. Sic!
Ma torniamo al viaggio e alla mia Cinquecento. Non pensiate che sia facile guidarla! Mai sentito parlare della doppietta? Roba che in tempi di cambi automatici e joystick al volante pare uscita da una tomba egiziana… Bene: ai tempi in cui il cambio sincronizzato non era ancora diffuso sulle auto, soprattutto quelle di fascia bassa, per scalare una marcia bisognava disinserirla lasciando il cambio in folle, dare un colpo di gas e quindi inserire la marcia più bassa. Se la scalata avveniva in frenata, allora era addirittura necessario azionare con la punta del piede il pedale del freno e con il tacco l’acceleratore. Se avete una macchina moderna queste cose non le fate più, ma se avete una Cinquecento dovete imparare. In realtà con un po’ di pratica l’operazione risulta semplicissima e far rombare il motore tra una marcia e l’altra è finanche divertente. Sì perché, vedete, le cose difficili non sono difficili se s’impara a farle, e quando si riesce a farle con agilità danno persino soddisfazione. Ma in un mondo che rincorre ogni sorta di comodità come si può essere felici? Me lo chiedo spesso, ed è uno dei motivi per cui ho deciso di intraprendere questo viaggio, sperando peraltro – dato che masochista ancora non sono – che le difficoltà si palesino in forma consona alla mia perizia…
C’è un’altra cosa che mi ha sempre dato gioia, soprattutto nel viaggiare: la scoperta. Per questo da diversi anni passo le mie estati in giro per il mondo. Mi piacciono in particolare i posti dove gli altri non vanno, per paura, per diffidenza e talora per semplice ignoranza, perché non sanno cosa ci troverebbero. Per questo, mentre i miei amici organizzavano vacanze tra spiagge, discoteche e ristoranti, io sono stato in Marocco, nel deserto egiziano e in quello Algerino, in Messico, a Cuba, in Turchia, in Argentina, in Islanda, a Miami e a New York, due volte in Tunisia e l’anno scorso in Libano, Giordania e Siria, paese quest’ultimo dove ora si vivono giorni di serie tensioni, ma che a me ha riservato una sincera e generosa accoglienza. Come gli altri del resto, poiché ovunque io sia stato, dove più dove meno, ho avuto sempre la fortuna di incontrare genti straordinarie.
Mi mancano l’Africa, dove vorrei spingermi più a sud, l’India e l’estremo Oriente, ma prima o poi arriverò anche lì, passando per quell’Iran che sarebbe stata la meta di quest’anno se la situazione politica in medio Oriente fosse stata solo un poco più tranquilla. C’è tempo del resto, e il mondo è troppo grande e troppo vario per poterne saggiare ogni delizia in una vita sola.
Quest’anno, nell’anno dei suoi centocinquanta, ho scelto l’Italia per stupirmi, convinto che le sue genti e i suoi luoghi sapranno affascinarmi ancora. Non l’Italia martoriata dalla miopia e dal malcostume, così irriconoscibile rispetto a quando è nata, invecchiata male al punto di far fatica anche a trovare le energie per stare al mondo. Un’altra Italia, quella che si va perdendo, quella abbandonata e nascosta, quella uguale a sé stessa nei secoli, che rifugge la mondanità passeggera e trova nelle sue radici ancora sane la forza di guardare al futuro con speranza. Vado a cercarmela sui monti, lungo quell’Appennino che ne è schiena dritta, per arrivare al mare solo all’ultimo.
Se in questo viaggio vorrete seguirmi, mi troverete ogni giorno su queste pagine. Se poi vorrete indicarmi la strada, raccoglierò i vostri suggerimenti e ne farò tesoro. Mi farò accompagnare da qualche buon libro, da una chitarra che non so suonare (imparerò?) e soprattutto da un po’ di sana musica italiana, per farmi raccontare in note gli umori e i caratteri dei luoghi.
Per questo, e perché la sua canzone dice cose sagge, mi sono permesso di rubare l’incipit a Irene Grandi.
Mi fermerò a Palermo?
Complimenti per l’iniziativa. Se deciderai di attraversare il versante ovest dello stivale, giunto dalle parti di Salerno di consiglio di fare rotta per il Parco nazionale del Cilento”, nella zona interna. Tra inghiottitoi fluviali naturali, vaste distese, paesi dove il tempo sembra essersi fermato.
Passerò non lontano, chissà che non mi allunghi… in particolare m attirano i paesi “dove il tempo sembra essersi fermato”!
Caro Gae, sono Francesca la sorella di Silvia, e sono appena stata a Palermo. Ho passato una notte (solo una purtroppo) da sola in quella città bellissima, passando dalla più sperduta e 800esca delle isole eolie (Alicudi) alla secolarizzata Milano. E’ stato uno step essenziale tra le due dimensioni, e, come sempre visto che è la terza volta che ci passo, mi ha fatto un effetto strano, che assomiglia alla nostalgia. Forse perchè conserva tanti tratti di un passato remoto misto alle idiosincrasie del presente, tradizioni sovrapposte a speculazioni, calore e distanza allo stesso tempo. Palermo per come l’ho intravista io è un pò la città degli opposti (mescolati). Ok, mi sa che sto scrivendo cose che non significano niente solo per dirti, molto banalmente, che è una città da vedere e forse anche da vivere…. e se ti capita, fai un salto anche ad Alicudi, che non è male
ovviamente senza macchina perchè lì le macchine non esistono… è un’isola faticosa e selvaggia, in cui ci si sposta a piedi o con i muli e sul monte spariscono elettricità e acqua corrente… è completamente “fuori” dall’Italia per come la intendiamo solitamente ed è stupenda (forse proprio per questo).
Seguirò il tuo viaggio dal blog, se mi sarà possibile. Intanto, baci e buona partenza!!
PS: dell’Italia ti consiglio anche Matera, non so se possa far parte del tuo tragitto, ma è unica.
Alicudi è nei miei sogni da almeno dieci anni, ma ancora non è giunto il tempo. Ti chiederò consiglio quando sarà l’ora! Da Matera invece passerò senz’altro, provvisto di ricca lista di dritte e suggerimenti fornitami da amico autoctono! Tu dove sei stata?
ciao Gae! iniziativa interessante non c’è che dire..
e se passi da matera fatti sentire! io sono lì (o a metaponto) fino a fine mese.
Ciao Mick! Conto di passarci, ti chiamerò quando sono in zona, credo intorno al 17-18 agosto!
Ciao GaeTano… mi piace l’idea che stiamo per partire quasi assieme, anzi probabilmente lo faremo visto che non ti vedo partire di domenica insieme ai greggi… Io partirò lunedì mattina ed è ancora curioso che i nostri sentieri si incroceranno probabilmente nella ricca terra umbra… entrambi con mezzi antichi, io forse questa volta ancora di più visto che sarò a piedi… Keep in touch caro Amico e buon viaggio, dentro e fuori..
In effetti son partito di venerdì, nonostante saggezza popolare voglia che né di venere né di marte né ci si sposi né si parta… Speriamo non mi colga un fulmine per questo!
Sarò in Umbria martedì e poi punterò verso L’Aquila. Ti chiamo quando sono in zona, non si sa mai!
Buon viaggio anche a te e preservati un pezzo delle suole che l’anno prossimo andiamo a consumarle da qualche parte nel mondo!
Io ho visto Matera solo per mezza giornata insieme a Lu, che è autoctono della Basilicata quindi mi ha guidata lui e non ti so dire posti o luoghi specifici purtroppo… molto banalmente i sassi, le case scavate nella rocca, il paesaggio nudo e crudo è bello in sè….
La mia era blu. TOX06593, con l’adesivo degli Skiantos (e Truzzi Brothers) -giallo, come un pugno nello stomaco- dietro, sulla sinistra.
Mi manca.
Mi mancano quei tempi, forse. I miei diciott’anni, gli amici di un tempo, la musica solo mia, i contorsionismi per le prime passioni di cui lei é stata omertosa testimone. Mi mancano i primi Viaggi, che non somigliano affatto agli spostamenti di oggi. Mi manca lei, la mia cara e vecchia “sinsent”, che oggi non c’é più, ma sarà per sempre nel mio cuore.
Buona Strada. E abbi cura della piccola.
Ruben!
Se la tua piccola fosse ancora qui senz’altro le nostre sarebbero amiche!
Scherzi a parte, in questi giorni posso dirti che ho provato gran piacere nel vedere come viaggiare con la mia piccola (ne avrò cura, non preoccuparti!) non sia poi tanto diverso dal farlo con altri mezzi, in termini di tempi di percorrenza, ma in compenso dia delle sensazioni di piacere assolutamente nuove e uniche. E quel che dici me lo conferma, perché quel piacere di cui parlo è legato proprio a questo, ai ricordi, alle emozioni, al rapporto che creiamo con gli oggetti e i mezzi che ci accompagnano nel nostro quotidiano. Il progresso e la modernità ci hanno abituato però a disfarci delle cose vecchie per passare alle nuove, dando un peso maggiore alla funzionalità, alla praticità e via dicendo. In realtà anche la Cinquecento è frutto della modernità, a modo suo. Di una modernità d’altri tempi, ma pur sempre tale. Quel che è cambiato dai tempi in cui è nata lei ai nostri è la velocità del progresso stesso, che ha superato di gran lunga il nostro ciclo di vita. Ai tempi un’auto potevi tenerla dieci anni, la cambiavi perché era finita e ne ricompravi un’altra identica, perché nel frattempo il modello era rimasto uguale, con qualche abbellimento e qualche virgola di ammodernamento, ma sostanzialmente uguale. Ti accompagnava non dico per la vita, ma certo per un bel tratto. Ti ci potevi affezionare a quel mezzo, farlo tuo, personalizzarlo e renderlo unico, perché poi l’avresti tenuto abbastanza a lungo da poter godere di quel tuo lavoro. E ne conoscevi ogni pezzo, ogni particolare, e anche questo dà piacere e sicurezza e qualche volta si porta dietro un’altra cosa bellissima che si chiama complicità.
Tutto questo non si trova sul mercato, lo regalano solo il tempo e la frequentazione, la quotidianità. Ma se è la velocità di questo nostro mondo moderno a impedirci di goderci queste cose, perché non rallentare? A me non dispiace correre, chi mi conosce lo sa, ma io non salgo su una macchina sulla quale non sono io a decidere quanto schiacciare sull’acceleratore. E’ un pensiero che mi frulla spesso nella testa in questi giorni…
Caro amico del martedì sera, buon divertimento… attendiamo con trepidazione la cronaca della prima partita a carte che giocherai…
In traghetto da Palermo con qualche tunisino clandestino che cerca di raggiungere la Francia!